Nota: Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori dei racconti attorno al tema della follia, su quello che succede a volte nella testa della gente; sono tappe di avvicinamento al Festival dei Matti – Nel nome degli altri che si terrà a Venezia dal 13 al 15 maggio. Il sesto racconto è di Heman Zed e si intitola Autoscopia
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AUTOSCOPIA
Picchia. Forte. Picchia in testa dentro e fuori. Botte sul finestrino, incessanti, ritmate, ossessive. Un colpo più forte mi aiuta ad aprire gli occhi. Picchia in testa dentro e fuori. Sbatte il viso sul finestrino: chi? Piazzola di sosta della superstrada. Ok, pioggia, molta pioggia, addormentato. Il Disco Dinner Club, molto tardi, forse ho esagerato. Picchia in testa dentro e fuori. Sì, ma cazzo, mi esplodono i cervelli. Io ho due cervelli: uno davanti e uno dietro, o forse uno a destra e uno a sinistra, o uno sopra e uno sotto. Smetti ti prego, smetti di sbattere quella testa! Non lo sopporto più! Il naso cristodio! È rotto, sanguina e le lacrime che scendono o forse è solo pioggia e sbatte e sbatte ancora e grida. Perché? Che senso ha? La mia faccia insanguinata e lacrimante è al di là del finestrino? Picchia in testa forte, dentro e fuori. Forse chiudo gli occhi e passa, forse chiudo gli occhi e non li apro più. Forse chiudo gli occhi e vedo comunque. Forse chiudo gli occhi e smetto di picchiare, di sanguinare, di urlare. Forse chiudo gli occhi e appoggio la testa così, piano, con delicatezza, le mani che massaggiano le tempie, qui. Nella superstrada, con la pioggia il sangue e le lacrime e tutto che picchia forte in testa dentro e fuori, ma picchia già un po’ meno forte. Un passo indietro.
– Sei solo? – dice.
– Sì, – rispondo.
– Ti diverti? – dice.
– No, – rispondo.
– Ma qui al DDC tutti si divertono! Ci divertiamo tutti! Siamo tutti amici! – dice.
– A me sembriamo tutti a cazzi nostri e incomunicanti, – rispondo.
– Cosa? – dice.
– E c’è pure un volume assurdo! – dico.
– Scusa ma non sento! C’è un volume assurdo! – dice.
Continua a guardarmi e a porgermi la mano per invitarmi a ballare o a offrirle da bere o a sa dio cosa. Manco più padrone di potermi rompere i coglioni in pace. La signorina intrattenitrice pierre ha deciso che anch’io, come tutti, devo divertirmi e di tutti essere amico. Che poi non fa una bella immagine uno seduto che osserva la massa euforica e incomunicante. Se la massa si accorge di lui, smette di essere euforica e le viene la depressione e no, non fa una bella immagine. Questo più o meno è il discorso della signorina intrattenitrice pierre che, detto tra noi, mi sembra pure un po’ strafatta di coca. Due passi indietro.
Sono arrivato in Italia da San Paolo del Brasile che avevo cinque anni. Ho un solo ricordo: è una vecchia canzone di Alberto Camerini che mio fratello maggiore ascoltava in continuazione. Sono nato nel sole di un paese grande che libero forse non è stato mai. Mi sembra ancora di sentirla: mio fratello mi ha fatto andare in disgrazia Camerini e l’intera musica. Ascolto solo la radio e pure distrattamente. Riconosco le voci o le melodie ma non saprei dire con esattezza chi, quale, cosa. Forse per questo non mi stavo divertendo al DDC. Due passi avanti.
Assurdo stare in un posto con masse di gente in cui non c’è spazio per la parola, il verbo, la comunicazione, l’interazione, il feedback, o come lo si vuole chiamare. L’unica persona che mi ha rivolto la parola è stata la signorina intrattenitrice pierre, impaurita che abbassassi l’euforia generale. Un passo indietro.
– Se vuoi ti faccio un pompino…
– A che scopo?
– Magari ti viene il buonumore…
– Potrebbe essere una soluzione… la mia ragazza non sarebbe molto felice però.
– Beh, sì, neanche il mio boy immagino…
– Cazzo di discorso.
– Come? Parla più forte!
– Ho detto cazzo di discorso! Cos’è? Se scoppia una bomba nel locale spompini tutti quanti per contenere il panico e il tuo boy aspetta il turno?
– Era solo un’idea… così ti rilassi e ti diverti.
– Chi ti dice che non mi stia già divertendo? – un altro passo indietro.
– …Ma hanno tutti un compagno di banco. La scuola è più divertente col compagno vicino.
– Sì signora maestra lo so, ma io credo di divertirmi di più in banco da solo.
– Ehhh, questa timidezza…
– Cos’è la timidezza signora maestra?
– È quella cosa che ti fa avere paura di parlare con gli altri. Ma prima o poi passa vedrai.
– Ma io non ho paura di parlare con gli altri signora. Solo che tante volte non ne ho voglia. Preferisco guardare e ascoltare. Io mi diverto così. – due passi avanti.
Manco ce l’ho la ragazza. Probabile che nemmeno la signorina intrattenitrice pierre avesse ‘il boy’. Forse. Un passo indietro.
– Perché sei entrato se sapevi di annoiarti?
– Mica ero sicuro di annoiarmi. Diciamo cinquanta e cinquanta. Sto cercando delle risposte.
– A cosa?
– Al fatto che non ci sto più dentro.
– Dove?
– In generale.
– E l’hai trovata? La risposta dico.
– Più o meno.
– Prendi queste allora. Poi le anneghi con un paio di vodke e troverai le risposte. E allora te lo faccio un pompino o no? Mica posso stare nei bagni tutta la serata!
– Non credo il pompino sia una risposta. Usciamo pure.
– Come vuoi. Buon divertimento allora! Vedrai che la serata ti cambierà subito! Ti aspetto in pista!
– Cosa?
– Dico che ti aspetto in pista! A ballare! E se due sono poche cerca il Tonno!
– Cerca chi?
– Il Tonno! È il tipo che ha lo sballo! – due passi avanti.
In Italia secondo l’istat le discoteche sono frequentate dal 25% delle persone in cerca di momenti di svago. Per il 7% però, sono luoghi che inducono alla depressione più degli ospedali (5%), sale d’attesa (3%) e cimiteri (2%). Possibile? Due passi indietro.
Si respira a pieni polmoni la-mor-te-del-la-dia-let-ti-ca. Un passo avanti.
Picchia, picchia in testa dentro e fuori ma picchia meno, molto meno forte. Forse posso guidare, forse. Ancora qualche chilometro e poi sono a casa, il bagno, la doccia, il letto, la calma. Calma e gesso, piano-piano, scalare una marcia, non toccare i freni, in curva è pericoloso toccare i freni, a metà curva si accelera un pochettino e si cerca il punto di corda ma non frenare, piuttosto scalare un’altra marcia. Semaforo rosso, ci si ferma. Non di colpo, si rallenta si scalano le marce fino alla seconda e poi stop. Verde, si riparte, innestare la terza a quaranta all’ora, indicatore di direzione, svolta a destra, dritto, indicatore di direzione, svolta a sinistra, apertura cancello garage sotterraneo, venti metri, numero ottantaquattro, stop. Spegnimento motore, freno a mano. L’istruttore di scuola guida, lui sì comunicava. L’autoscuola è un posto dove l’istat non rileva casi di induzione alla depressione. Nelle autoscuole la dia-let-tica-vi-ve.
Picchia ancora e in più ha lasciato il segno: lividi bluastri che solo a sfiorarli mi fanno urlare di dolore.
Taccuino degli appunti: verificare grado di incomunicabilità in luoghi ad alta densità di persone. Tipo club e discoteche o supermercati. Nel caso di questi ultimi verificare il grado di consapevolezza nel consumo (vedi appunti pagine precedenti).
Discoteca: non luogo di non comunicazione con finte formule di divertimento ed eccitazione riconducibili a forzature innaturali indotte da stati biochimici alterati. Estinzione della dialettica.
Il linguaggio umano è sostituito da movimenti corporei ossessivi e ripetitivi.
Una, due, tre rampe di scale: due scalini alla volta alternati a uno, alternati a tre. Piano terra, supermercato; che è, cito, un punto vendita al dettaglio a libero servizio di prodotti di largo consumo con superficie compresa tra quattrocento e duemilacinquecento metri quadrati.
No, è un Echelon in miniatura dove le multinazionali e le loro catene di distribuzione controllano cosa mangiamo e soprattutto ci fanno mangiare quello che vogliono. Grazie ai punti e ai premi hanno un’enorme banca dati di nominativi dei quali sanno: indirizzo, numero telefonico, composizione del nucleo familiare, istruzione, usi alimentari, tipologia di acquisti, presunto reddito. In cambio di tutto questo fanno finta di regalarti: pentole, piatti, bicchieri, asciugacapelli, lenzuola asciugamani, abbonamenti a riviste, elettrodomestici, peluche. Ti regalo una padella antiaderente e in cambio mi dici tutti i cazzi tuoi va bene? Se te lo chiede uno per strada lo prendi a calci in culo, dentro un supermercato o a casa, davanti al catalogo dei premi lo fai. Però se non sei soddisfatto puoi sempre reclamare al servizio consumatori dove faranno tesoro delle tue lamentele e delle tue indicazioni. E allora io lo chiamo il servizio consumatori e gli dico che no, non avranno mai il mio nominativo che poi rivenderanno a loro volta sa il cazzo a chi o dove. Il mio nome, il mio indirizzo e quello che ingurgito, non valgono una padella antiaderente o un magnifico plaid.
– Gentile consumatore per inoltrare il reclamo deve lasciare il suo nome-cognome-indirizzo.
– Io-vi-ho-chiamato-perché il mio nome non venga associato a una cazzo di padella antiaderente!
– Siamo spiacenti gentile consumatore ma senza nome-cognome-indirizzo non posso inoltrare il suo reclamo. Grazie per averci chiamato gentile consumatore e se lascerà il suo nome-cognome-indirizzo le faremo recapitare un bellissimo plaid in omaggio.
Non si parla e ci si disumanizza: incomunicabilità e disumanizzazione. Volevo parlare con una persona, non con un cazzo di software. Incomunicabilità disumanizzata, automi in balìa di messaggi pubblicitari che ci distolgono dalla realtà. Questo è il campione di razza umana che vedo all’interno del punto vendita al dettaglio a libero servizio di prodotti di largo consumo.
Hanno i carrelli pieni di acqua in bottiglia, la stessa che sgorga dal rubinetto a un costo dieci volte inferiore. Hanno buste di pastoni a base di, leggo, glutammato monosodico, inosinato disodico, guanilato disodico. C’è anche uno sputo di verdure liofilizzate.
Turboconsumatori votati alla causa dell’acquisto d’impulso: non si ragiona, si compra e basta, e a tenerli buoni ci pensa il teflon e il plaid.
Alla signorina addetta alla cassa 3 chiedo nel caso non avessi i soldi come ci si regolerebbe.
– Può pagare col bancomat o con la carta di credito, – dice.
– Non ho né uno né l’altro.
– Allora deve lasciare qui la merce, – dice.
– Vengo qui quasi tutti i giorni: porto a casa la merce, prendo i soldi e glieli porto. Non si fida?
– Certo che mi fido. Ci mancherebbe, ma non posso farle prendere la merce, – dice.
– Tienti la tua merce putrida, pezzente! – dico. Gli sbatto a terra una ad una tutte le sei uova. Anzi cinque perché l’ultima la spiaccico sul bancone cassa. E me ne vado.
Taccuino degli appunti: importante. Cessare ogni forma di rapporto di lavoro. Licenziamento immediato con ausilio di certificato medico in cui sia specificata la voce ‘indisposizione alla schiavitù’. Da valutare soluzioni alternative di sostentamento (abbracciare filosofia freegan).
Supermercato: centro di bombardamento psicologico effettuato da esperti di marketing il cui fine ultimo è disintegrare ogni forma di resistenza all’acquisto d’impulso, al packaging, al cibo spazzatura, ai regali inutili contro acquisizione dati personali. Inesistente lo scambio d’informazioni tra la clientela e assenza di fiducia tra consumatore e distributore.
Picchia forte. In testa. Picchia solo dentro, ma picchia. Il medico c’è? Il medico c’è e anche la solita fila in attesa. Parlano delle loro patologie come se facessero parte integrante del vivere quotidiano. Qui almeno si comunica ma il verbo, il confronto, il dialogo serve a sentirsi fortunati nell’avere l’influenza o il doloretto o il diabete rispetto alla cardiopatia grave, all’artrosi deformante o al cancro del vicino di casa, del parente del conoscente. Tutti in fila ad aspettare la pastiglia miracolosa elisir di lunga vita e lunga farmaco-dipendenza. Dalle quattro alle otto pillole al giorno sperando di poter passare in breve alle dodici o quattordici che così si sta più tranquilli.
Poi arriva lui: valigetta, cellulare incollato all’orecchio, occhiali griffati in tinta coi lacci delle scarpe griffate, un saluto sorridente con voce medio-alta. L’informatore medico-scientifico mi si siede di fronte e inizia a trafficare con le scatolette multicolor nella valigetta se mai qualcuno non l’avesse notato. La platea risponde al saluto con cenni cortesi cercando di nascondere il fastidio dato dalla sua presenza; infatti l’informatore medico-scientifico ha la precedenza ogni due pazienti e dall’alto del sorriso griffato chiede chi sono i prossimi due specificando che dopo lui avrebbe la precedenza a meno di casi gravi che allora…sì insomma…
– Perché la scienza e l’informazione che ne deriva mica si possono arrestare così, per una ricetta o un tappo di cerume! Ma siccome tu non informi ma disinformi dovessi darti la precedenza, col cazzo che ti farei passare! Te ne staresti lì per tutta la giornata con la tua valigetta carica di miracolosa merda chimica da cui si ricavano cancri e miliardi! E tu informi? Tu inganni! Tu sei un servo della gleba dispensatore di gadget, di grafici con dati e statistiche falsificati, di effetti collaterali occultati, di farmaci inutili venduti a prezzi esorbitanti e di principi attivi tutti uguali! Vaffanculo! Guardateli! Questo è un informatore scientifico, quello è uno spacciatore ma in realtà vendono la stessa merda! Servi!– urlo. Tiro fuori i medicinali dalla valigetta, li lancio per la stanza e sputo sulle scarpe del servo della gleba.
Picchia forte, forte qui, nella testa.
Poi me ne vado tra il silenzio generale, l’imbarazzo dell’informatore medico scientifico e quello del Tonno venditore dello sballo, nel frattempo entrato. Mi è rimasto pure in mano il giornale che stavo leggendo; meglio così, visto che l’articolo era interessante e degno di considerazione.
Taccuino degli appunti: considerato inutile ausilio di certificato medico per fine rapporto lavoro. Comunicherò nuova condizione personalmente. Incontro con figura professionale ambigua mi ha scatenato reazione di forza verbale. Tutto ciò non era contemplato negli appunti. Attenzione! Articolo interessante su giornale per eventuale via d’uscita.
Picchia forte in testa. Picchia sempre più forte dentro. Solo dentro ma sempre più forte.
– Pronto?
– Stai bene?
– Sto bene
– Non ti fai mai sentire…
– Sì. Non molto.
– Sei così strano ultimamente…
– Negli ultimi trentadue anni dici.
– Pranzi da noi oggi?
– Si può fare.
– Trenette al pesto.
– Ah, c’è anche mio fratello perciò…
– Sì. Ti dispiace?
– No. Non molto.
– Sei sicuro di stare bene?
– Sì. Picchia in testa ma sto bene. A dopo, ciao ma’.
Taccuino degli appunti: verificare motivo per cui, quando io e mio fratello pranziamo dai miei, sempre e comunque trenette al pesto. Trenette al pesto. Trenette al pesto. Trenette al pesto. Trenette al pesto. Penne all’arrabbiata? No. Trenette al pesto.
– Perché ogni volta che si mangia qui ci prepari le trenette al pesto?
– Non ti ricordi? Il giallo della pasta, il verde del pesto e il blu del bicchiere.
– Eh.
– Giallo verde e blu no? I colori della bandiera brasiliana. Eri stato tu a farglielo notare e da quella volta per ‘fare famiglia’…
– Eh, per ‘fare famiglia’.
– Certo che hai una faccia. Mi sembri Charles Manson con gli occhi fuori dalla testa.
– Eh. Buone le trenette. Col pesto.
Un passo indietro.
– Guarda! Il giallo della pasta, il verde del pesto e il blu dei bicchieri!
– E cosa c’è di strano?
– La bandiera! La bandiera brasiliana!
– Oh, tesoro non ci avevo fatto caso! Ma che bella cosa: proprio stasera che siamo tutti assieme e papà non è fuori città per lavoro.
Un passo avanti. Nemmeno se fosse tornato a casa col preservativo ancora sull’uccello ti saresti convinta di avere un marito puttaniere. Guardalo, il mega-dirigente in pensione che si strafoga sulle trenette al pesto come fossero l’essenza di mille baccanali. Fare famiglia.
Un passo indietro.
– Allora vi propongo: tutte le volte che avremo l’occasione di trovarci a tavola assieme, preparerò le trenette al pesto coi bicchieri blu. Va bene?
– Io le mangerei anche tutti i giorni e tutte le sere purché papà fosse sempre a tavola con noi.
– Ma lo sai che non è possibile piccolo mio. Papà ha molti impegni in molte città. Il mio è un lavoro importante, con molte responsabilità.
– Sì lo so, papà.
Un passo avanti. Come so che in realtà non ti muovevi mai e il tuo ufficio nei weekend diventava un bordello, stronzo. E noi a casa ad aspettare le trenette al pesto. Picchia forte, sempre più forte. Più lo guardo più picchia in testa. Un passo indietro.
– Tutte le città che vai mai una volta che ci porti un regalo, papà.
– È vero, caro. Un ricordino, un qualcosa, non ti ricordi mai di noi.
– Avete ragione ma purtroppo sono sempre di corsa. Manco la vedo la città dove sono perché arrivo in aeroporto mi vengono a prendere in macchina, riunione, convegno, hotel ed è già ora di tornare. Però prometto che manderò qualche cartolina. Quella sì.
Un passo avanti. Picchia forte, picchia forte.
– Chi mandava le cartoline?
– Con chi ce l’hai?
– Con te che ti stai strafogando di trenette. Ti ho chiesto chi cazzo mandava le cartoline al posto tuo. Tu le scrivevi ma chi le mandava?
– Tu ormai sei da ricovero. Ha ragione tuo fratello, hai gli occhi fuori dalla testa.
– Su, su, fate gli ometti, non baruffiamo proprio oggi che siamo tutti assieme a tavola.
– Chiedi a tuo marito chi spediva le cartoline.
– Ma di che cartoline parli?
– Quelle che ci mandava dalle città in cui andava a svolgere il suo lavoro importante di responsabilità.
– Secondo te chi le spediva, lo spirito santo?
– Tu non le spedivi di sicuro impegnato com’eri con le tue puttane.
– Ma al papà dici queste cose?
– Come ti permetti di insultarmi in questo modo?
– Tu non andavi da nessuna parte! Non ti muovevi dall’ufficio per tutto il weekend! Ve ne stavate lì, tu e gli altri tuoi colleghi e delle gran troie! Sei sempre stato un puttaniere! Tuo marito, mamma, è un puttaniere! Tuo padre, Cesare, è un puttaniere! Quello che adesso se ne sta lì con la bocca aperta piena di poltiglia di trenette passava i suoi fine settimana in riunione con le puttane!
– Io non ti permetto…
– Tu non mi permetti un cazzo! Vecchio porco! Se vuoi telefoniamo ai colleghi di bagordi e vediamo se non mi posso permettere!
– Come puoi dire una cosa del genere! Offendere in questo modo tuo padre!
– Come hai fatto tu a sposarti un puttaniere!
– Esci! Esci da questa casa, per dio! Che non ti veda più! Vattene! Via dalla nostra casa! E non osare mai più infangare il nostro nome! Io ti misconosco!
– Pazzo! Tu sei impazzito figlio mio!
– Fottetevi! Tutti! Ipocriti schifosi! E buona permanenza col puttaniere!
Taccuino degli appunti: in famiglia (nella mia famiglia) non è tollerato nulla e-dico-nulla che faccia deragliare dal binario dell’immobilità perbenista così faticosamente costruita negli anni. Non-mangerò-più-trenette-col-pesto. Cesare non ha preso posizione. Cesare non prende mai posizione. Cesare non prenderà mai posizione. Cesare non deraglia, mamma non deraglia, papà non deraglia
Come da appunti, scegliere metodo di eliminazione mezzo televisivo.
I telegiornali confezionano notizie di cronaca, gossip e sport. L’informazione modifica la realtà per farci vivere nel limbo dell’ottusità. Un mondo diviso in parti uguali tra: calciatori, soubrette e omicidi. A volte anche suicidi. La programmazione giornaliera segue a ruota: Intervistano la ragazza di paese diventata soubrette famosa, il ragazzo di paese diventato calciatore famoso, il bullo di paese che ha compiuto l’omicidio. Un sogno americano per tutti. Ogni dieci omicidi una legge repressiva che ci faccia stare meglio e ci dia senso di sicurezza, ogni dieci calciatori una tornata di partite truccate, ogni dieci soubrette un puttanaio a palazzo. Tutto il resto è dimenticato, non c’è, non esiste. Dal cappio degli straordinari per sopravvivere ci si salva avendo una figlia soubrette o un figlio calciatore. Anche un figlio omicida va bene che poi con le interviste ci si fa su qualcosa.
Accensione, partenza: un paio di studenti accusati di avere ammazzato una loro compagna. Assalto al furgone portavalori, il ladro spara, muore una guardia, la guardia spara muore il ladro. Un parricidio. Spot, intervista all’onorevole. E lo stupro? Ecco che arriva puntuale: due extracomunitari stuprano una loro connazionale fidanzata con un pregiudicato italiano il quale ha fatti fuori i due extracomunitari. Americani, iracheni, afghani, pachistani, palestinesi, israeliani, regolari, militari, paramilitari e terroristi anche oggi si sono scaricati addosso una ventina di caricatori. Spot, intervista al senatore e vai con la seconda parte. Nuovo megacontratto milionario e copertina su Vogue per la modella cocainomane che sta con l’eroinomane: modelli da non imitare dicono, modelli-da-non-imitare. Tentato suicidio della velina in vacanza col calciatore, il quale la cornifica con l’ex del tronista. Spot, intervista all’onorevole e al senatore, calciomercato.
Omicidio di massa del pensiero umano. La televisione è falsa, la televisione è bugiarda. Tu-racconti-le-bugie-e-se-racconti-le-bugie-sei-cattiva-cattiva-cattiva-e-io-ti-punirò.
Picchia in testa dentro, forte. A volte smette ma lo sento in lontananza, sordo, presente che arriva e al momento giusto picchia. Forte, sempre di più, insopportabile.
– Desidera?
– Caffè grazie.
– Liscio?
– Lungo. Anzi no, scusi, liscio con panna.
– Liscio con panna.
– Però forse è meglio un cappuccino. Con panna.
– Veda lei.
– Allora cappuccino, però senza panna.
– Sicuro?
– Sì, cappuccino senza panna, però non tanto; ne voglio poco.
– Le faccio un caffè macchiato?
– Ecco sì caffè macchiato. Ottima scelta.
– Sicuro di sentirsi bene?
– Sicuro sì. Picchia forte da lontano e poi arriva, però sicuro sì. C’è molta gente sì? Molta gente nel suo bar. Tutti davanti alla televisione, tutti rapiti dalla televisione.
– Ci sono le coppe stasera, Champions League. Il suo macchiato.
– Il macchiato grazie.
– Secondo lei se stessero parlando di inquinamento ambientale o di lavoro minorile o di aspettative deluse e speranze morte sarebbero tutti lì davanti come una mandria di decerebrati?
– Non lo so. Non mi pongo il problema. Guardi che si fredda il macchiato.
– Il macchiato che si fredda? Il problema è che lei dovrebbe educare questa gente a venire nel suo bar per discutere, per confrontarsi, per capire e per agire e invece li fa ammassare lì, davanti alla regina della menzogna! E voi! Sudditi! Pecore! Vacui oltre ogni limite! Vi hanno appena ammazzato di straordinari, vi siete appena fatti un’overdose di veline e omicidi e tra un po’ sarete anche frustrati di non avere un figlio calciatore famoso! Perché la vostra ultima spiaggia è la Champions League! Voi vi fate ingannare da questa scatola bugiarda! Io perciò punirò la menzogna e salverò la vostra capacità critica! Prendendo la regina della menzogna e scaraventandola così! A terra! Distrutta!
Taccuino degli appunti: la razza umana non è più disposta a vedere finire in pezzi i finti totem che adora. Reagisce rabbiosamente alla distruzione del totem. Erano arrabbiati e mi picchiavano con molta violenza ma io ridevo. Io sono contento che mi abbiano picchiato perché si sono sentiti meno schiavi.
Picchia forte in testa, dentro, fuori, dappertutto. Devo dormire, devo riposare.
Serve la persona adatta. Serve-una-persona-professionalmente-adatta.
Leggo: Armin Meiweis ha conosciuto la vittima, l’ingegnere berlinese Bernd-Jürgen Brandes di 43 anni, con un annuncio su internet nel quale cercava candidati disposti a farsi macellare. Dopo che l’ospite venuto da Berlino ha ingerito 20 tranquillanti e bevuto una bottiglia di alcool, il carnefice gli ha tagliato il pene e assieme a lui se l’è mangiato.
La notte, dopo che l’uomo ha perso conoscenza per l’emorragia, gli ha tagliato la gola e l’ha fatto a pezzi.
Quindi ha messo le parti del corpo in buste di plastica, le ha surgelate e col tempo le ha mangiate.
Leggo: migliaia di giovani giapponesi per ribellarsi al conformismo sociale e familiare si chiudono nella loro stanza restandoci per anni. Li chiamano ‘hikikomori’, traducibile dal nipponico con ‘ritiro’. Alcuni escono solo di rado per mangiare con i genitori o per fare un salto al supermercato a notte fonda o per comprare cd musicali. La maggior parte però si ‘ritira’ per lunghi periodi con punte di dieci-quindici anni. Più passano gli anni più le probabilità che un hikikomori si reinserisca diminuiscono: non sono più in grado di lasciare la casa dei genitori e quando questi moriranno il destino del recluso è un’incognita.
Picchia forte, picchia forte in testa e ovunque ma tra un po’ non picchia più. Tra un po’ guarisco e non picchia più.
Il-problema-è-comunque-risolvibile.
– Pronto?
– Sì buongiorno. Lei fa anche piccoli lavori di muratura vedo.
– Sì. Di cosa ha bisogno?
– Dovrei murare una piccola stanza in casa mia.
– Murare una
tanza?
– Sì. Comprendo che è una cosa strana ma in quella stanza ho dei ricordi con cui non vorrei più vivere. Capisce? Picchiano, mi picchiano in testa e l’unico modo è murarli.
– Sì, più o meno. Comunque non ci sono problemi. Se vuole anche oggi pomeriggio o al massimo domani mattina. Mi lascia indirizzo e un numero di telefono?
– Non può venire subito?
– Veramente no. Ho un altro lavoro impiantato e…
– Quanto mi costa murare la porta?
– Mah… tra materiale e manodopera credo sui centocinquanta-centottanta euro.
– Gliene do trecentocinquanta se viene subito. Anzi, quattrocento.
– Mi dica dove abita e arrivo.
– Allora?
– Beh, non è un lavoro grosso. Senta, credo che duecento euro possono proprio bastare. Non ci vuole molto e così posso finire l’altro lavoretto che ho lasciato.
– No, no. In assoluto no. Abbiamo pattuito quattrocento euro e quattrocento euro le darò. Zitto infame! Non cercare di impietosirmi facendo finta di avere un’etica che non hai, che non c’è, che è morta!
– Beh, veda lei… io scendo a prendere il materiale e gli attrezzi.
– Senta, siccome devo uscire le lascio qui sul tavolo l’assegno e scendo con lei. Quando ha finito il lavoro si chiuda pure la porta appresso non si preoccupi.
– Ah per me va bene, se lei si fida…
– Mi fido. Quanto ci vorrà perché la muratura si solidifichi bene?
– Domattina è a posto.
Ok, non sento più rumore: hai tirato su tutto e ho sentito la porta chiudersi. Posso uscire dall’armadio. Sì, ottimo lavoro, hai fatto un bel muro solido, denaro meritato. Eccomi qui: una busta di prosciutto, il pane, la bottiglia d’alcool e i tranquillanti. L’ultima frontiera dell’hikikomori. Pane e prosciutto, molto pane e molto prosciutto, poi un po’ di alcool e i tranquillanti…
Ancora alcool e ancora qualche tranquillante e ci siamo. Già in lontananza non picchia più, picchia meno in testa, fuori e dappertutto. Sto guarendo, sento che sto guarendo, non picchierà più…
Un piccolo sforzo, un piccolo sforzo ancora per procurarmi una ferita. Non grossa da darmi dolore, non piccola da essere inefficace. Qui sul collo può andare bene o anche sul fianco che così non soffoco. Una ferita qui sul fianco che… così.
Ancora tranquillanti e ancora alcool, come ha fatto il signor Brandes…
Debole mi sento molto debole, non so quanto ne ho perso ma mi sento debole. Non ho neanche più la forza di prendere la bottiglia o un tranquillante. Sono immobilizzato, c’è solo una flebile capacità di pensiero. Però non picchia. Non picchia più né in testa, né fuori, né dentro, né forte, né piano. Non picchia più…
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© Heman Zed