Racconti Matti (Verso il Festival) #5 – La prima volta di Anna Toscano

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da Poetarum Silva

Nota: Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori dei racconti attorno al tema della follia, su quello che succede a volte nella testa della gente; sono tappe di avvicinamento al Festival dei Matti – Nel nome degli altri che si terrà a Venezia dal 13 al 15 maggio. Il quinto racconto è di Anna Toscano e si intitola La prima volta.

*

La prima volta

“Scusi, non ho capito bene”.
“Dal suo racconto, durante i nostri incontri, e alla luce dei fatti è emersa una patologia compulsiva. D’ora in poi, nel futuro dei nostri colloqui, dovremmo cercare di andare all’origine del suo malessere. Lavoreremo su questo. E per far ciò lei deve cercare di ricordare quando. Quando è stata la prima volta”.
“La prima volta?”.
“Sì, la prima volta. Solo così possiamo andare a cercare le radici dei suoi disturbi”.
“La prima volta”.
“Sì”.
“Va bene. Ma come faccio?”.
“Si faccia aiutare dagli oggetti. Vada a casa e guardando alle cose cerchi di risalire”.
“Ci provo”.
“È importante per la sua riabilitazione e il suo reinserimento. Ci lavori su”.
“Sì”.
“Venga. L’aspetto domani alle sedici”.
“D’accordo”.
“Arrivederci”.

Mi ritrovo in strada e mi sembra di non respirare da ore, in ascensore non ho respirato, nemmeno fino al cancello del giardino mi pare. Improvvisamente mi sembra di essere un assetato che incontra una fontana. Così scomposta, appoggiata con la schiena a un lampione, respiro avidamente nemmeno fossi in montagna e non in una città ad alto tasso di inquinamento. Mi apro la giacca, allento la sciarpa, l’aria gelida sul collo sudato, le mani che tremano. Respiro. Meglio, ora va molto meglio. Guardo verso la macchina con il lampeggiante e chiedo all’autista se può aspettare perché ora ho anche sete, molta sete.

“Una Coca-Cola per favore, con limone e senza ghiaccio”.

La mia prima Coca-Cola esattamente non me la ricordo, ma ricordo che quando la bevevo da piccola aveva un sapore dolciastro ed era calda. Mia madre non comprava mai dolci e bevande, la Coca-Cola la comprava solo per sé, “per digerire” diceva. Ma se la lasciava nel frigorifero mio fratello e io la trovavamo subito, così la bottiglia di plastica da un litro e mezzo la nascondeva dietro una poltrona di velluto verde. La teneva sempre con il tappo non ben chiuso così era sempre svampita e calda. Non so se lo facesse apposta, anche creme e barattoli non li ha mai chiusi bene, più che pigrizia credo si trattasse di una forma di disinteresse verso le cose. Noi la trovavamo lo stesso, e ne bevevamo pochi sorsi perché non se ne accorgesse, ma ovviamente se ne accorgeva e ci intimava di toglierci dai piedi che stavamo sempre in mezzo. Con gli anni poi iniziammo a comprarcela di nascosto e farne delle ubriacature. Eravamo così fanatici che facevamo a gara per capire, a seconda del gusto, dove fosse stata imbottigliata quella da 35 cc. Allora erano cinque le città in Italia dove veniva prodotta, ora non lo so, non ci ho più fatto caso. Poi continuammo quando la Coca-Cola arrivò in lattina. Ma il sapore era così diverso dalla bottiglietta. Ricordo però una bellissima borsina argentata che usavo per metterci le lattine: era un porta lattine da spalla che avevo scovato in un outlet, non potevo vivere senza. Quando lo persi in spiaggia corsi a ricomprarmelo. Ma la prima coca-cola no, non me la ricordo. Di quante cose non ricorderò mai la prima volta? Tantissime, ho paura. Come potrò ricordare? Forse ha ragione lo strizza, guardando alle cose. Cerco le chiavi della macchina ma ricordo che ora non guido. Salgo nei sedili dietro e penso “la mia prima macchina?”. Sì, certo, ce la posso fare: la prima macchina era una Renault 5 rossa, la ricordo sì. La prima volta che l’ho guidata ero con zia Marinella, l’unica in famiglia ad aiutarmi in questo grande passo perché i miei genitori si rifiutarono, sostenevano che io fossi sempre in mezzo anche nella strada, una sorta di prezzemolo pericoloso. Facevamo scuola guida nel tardo pomeriggio nel parcheggio dell’ippodromo. La prima volta fu lì. Prima, seconda, terza marcia, e via la quarta. Ero emozionata ma anche nervosa, sentivo che si trattava di un percorso obbligato per entrare nel mondo degli adulti. Quegli adulti che se volevano potevano mangiare senza apparecchiare la tavola, uscire senza comunicare l’ora del rientro, bere coca-cola fredda e gasata. Allora mi piaceva stare a guardare le donne che, uscite da un negozio o dal lavoro, rovistavano nelle loro borse cercando le chiavi della macchina e poi, trovatole, camminavano facendole tintinnare in mano. Così, per prepararmi alla nuova vita da patentata, mi comprai una borsa grande di cuoio marrone e arancio, senza chiusura, con larghi manici da spalla leggermente verdi, da poterci infilare la mano con disinvoltura per cercare le chiavi della macchina. Non volevo deludere zia Marinella, non volevo che tornate a casa si trovasse costretta a ridere di me con gli altri, così ce la mettevo tutta. Finalmente iniziammo ad andare nelle strade di periferia, piano piano. Lei non voleva la “P” di principiante attaccata sul cofano e sul retro della macchina come da obbligo, diceva che era la “P” di puttana e non ne voleva sapere. All’esame mi bocciarono, non conoscevo le marce del cambio normale, solo quelle delle Renault. Dovetti riprendere a fare pratica con un’altra macchina. Questa prima volta gli basterà? Sarà sufficiente a sondare del mio male le radici?

Mimi tesoro eccomi a casa, vieni qui, fatti accarezzare. Gioele buonasera. Ecco, bravo Mimi, vieni qua. Dunque, il mio primo gatto… Il mio primo gatto è stato Gioele, gatto di strada. Non lo volevo no, in famiglia non ero stata abituata agli animali, dicevano che portavano malattie e stavano sempre in mezzo. Ma per una settimana l’ho trovato sotto la mia macchina a godere del caldo del motore appena spento e ricordo che era autunno, un bellissimo autunno, ma come in tutti gli autunni una volta entrata in casa mi veniva un freddo tremendo. E allora pensavo al micio, dicevo poveretto appena il motore si raffredda che cosa farà? Così, dopo una settimana, me lo portai a casa. Mi sembrava avesse una faccia da Gioele, per questo lo chiamai così: smilzo con le orecchie a punta e un colore di pelo marrone bruciato che mi ricordava sempre le fotografie delle piantagioni di caffé in Brasile. Lo portavo spesso con me nei miei spostamenti, vacanze o visite agli amici. Era un gatto che dove lo mettevo stava senza molti problemi e senza dare alcuna confidenza. Per rendergli meno traumatici i viaggi, per farlo stare comodo e per non fargli cambiare troppi ambienti, gli avevo regalato un borsone verde marcio molto comodo e stiloso. Per me era pratico, con una maniglia allungata che rendeva il trasporto non complicato. Ogni volta che tiravo fuori il borsone dallo sgabuzzino Gioele iniziava a muovere nervosamente la coda, poi si avvicinava e, quando capiva che era inevitabile – cioè quando mi vedeva con giacca e chiavi tintinnanti in mano – vi entrava tramite l’apposita porticina. Invece in casa trascorreva il suo tempo sullo schienale di una poltrona molto grossa che presi dalla casa di mia nonna. Quando rientravo in casa lo vedevo là e lo apostrofavo sempre “Dura la vita da gatti, eh?”. Dura ma non lunga. Gioele lo trovai una mattina d’estate fuori casa, sotto la macchina. Ma non era la mia macchina, e non cercava il fresco, si era messo in mezzo probabilmente. Ho messo tutti i pezzi di Gioele in un sacchetto, ho pulito la strada, e ho fatto cremare il suo puzzle scomposto. Così ora sta in un angolo di uno scaffale della libreria in casa, lo posso salutare sempre quando entro ed esco. Mi dà un certo senso di pace vedere la bella urnetta in cui riposa, una sorta di bauletto scovato in un mercatino dell’usato, di cuoio lucido con delle piccole borchiette che salgono verticali, ricorda il colore dei fondi di caffè, un vago richiamo al colore del suo pelo. Ricordo il primo gatto e la prima macchina, non la prima coca-cola. Che debba proseguire in questo esercizio, secondo me incomprensibile quanto inutile? Cosa dovrei intuire con questi ricordi? Ma sono costretta a farlo, lo dice il dottore. E allora penserò ancora, per farlo contento domani.

Mi siedo e guardo fuori dalla finestra, una palma incolore tenta di bucare la nebbia che sale dal fiume. Vago con lo sguardo su oggetti e cose, frammenti di ricordi che arrivano da un passato così generico da risultare imbarazzante. Guardo e penso. Spolvero con gli occhi i ripiani in soggiorno, infastidita dalla luce gialla che proviene dalla lampadina a basso consumo del lampadario. Ma non ho voglia di alzarmi per accendere una abat-jour, ho solo voglia di terminare questi miei compiti per casa. Sfioro il mio portatile. Penso al mio primo pc. Era l’anno ’97, lo comprai con la liquidazione del negozio dal quale mi ero licenziata per andare a lavorare nello studio dentistico dove sono stata fino a pochi mesi fa. Lo conservo ancora su uno scaffale della libreria, devo dire che l’ho molto amato e ogni volta che mi capita sotto lo sguardo sento la felicità di allora per quell’oggetto. Era, e lo è ancora, blu. Questo me lo rendeva ancor più simpatico devo dire. Lo avevo acquistato non per un bisogno, ma più che altro perché tutti parlavano di rete e di posta elettronica, immaginavo il web come un luogo di ampi spazi dove si potesse stare ovunque senza paura di stare sempre in mezzo. Me lo portavo sempre appresso, pure in spiaggia d’estate. Le borse porta pc erano ancora molto costose, non ancora in premio con i punti del supermercato. Così cercai in tutti i modi di trovare un contenitore a basso prezzo per trasportare il mio pc blu. Vagavo di negozio in negozio, cercando l’idea che mi avrebbe salvata dall’approdare a quelle custodie grigie e imbottitine che si trovavano nei negozi specializzati. Entravo e uscivo affamata di una idea risolutiva e geniale; varcavo la soglia delle botteghe più strane e indefinite. Mi ero quasi convinta di ricorrere alle mani magiche e alla macchina da cucire di mia nonna quando entrai uno spaccio aziendale di cose da cucito. Fu così che comprai una bellissima borsina di stoffa trapuntata, una specie di trapunta fatta contenitore, rettangolare come il predestinato a farsi contenere, solo un po’ più spessa ma facilmente riempibile. Mi piaceva inoltre moltissimo che fosse rosa e blu, con qualche puntino giallo, e dei manici molto lunghi. Avevo insomma acquistato una sorta di abito da Holly Hobby tirolese al mio computer. E ne andavo molto fiera. Mi sento sfibrata da questo esercizio. Mi piacerebbe uscire a fare due passi, guardare due vetrine, bere un caffé al bar, entrare in qualche negozio. Ma non posso. Fino a domani qui, non mi resta che concentrarmi sulle cose, non mi muovo di qui finché non ricordo tutto. Fino a domani quando mi laverò, mi cambierò, mi pettinerò. Saluterò Mimi, lasciandole un po’ di pappe nuove. Sceglierò le scarpe, controllerò di avere i soldi nel portafogli e cercherò le chiavi della macchina anche se non la potrò usare. Un pacchetto di fazzoletti da naso, la spazzola. In quel momento dovrò decidere dove mettere portafogli, chiavi, fazzoletti, spazzola. Allora aprirò lo sgabuzzino e verrò, come sempre, invasa da un senso enorme di gioia e soddisfazione a vederlo stipato delle mie incontabili borse. Contemplerò a lungo colori e forme, tessuti e capienza, le sfiorerò con le dita godendo della loro pelle liscia o del ricamo vellutato. Ne annuserò il profumo avvicinandomi a quelle di cuoio, mi farò abbagliare dalle paillette e dalle borchie appuntate su altre. Guarderò con occhio sofferente quelle più segnate dal tempo, così come si fa di fronte a un bambino che al risveglio abbia ancora la febbre. Ricorderò per quale occasione le ho prese con me, in quale città, in quale paese. Quando le ho prese affinché restassero per sempre con me, come un mio prolungamento, mi assorderà ancora il suono che le ha accompagnate mentre uscivano con me dai negozi con quegli odiosi allarmi. Perché per la borsa perfetta si può uccidere, questo lo penso. Poi l’ossigeno inizia a venire meno, un senso di bagnato sul collo, le mani gelide a staccarmi i capelli che si incollano alla faccia, ecco sono un pesce, boccheggio come un pesce, le mie labbra verso il soffitto, le borse che non ho mi lacerano il petto, i contenitori in cui mettere cose, in cui riversare me, mancano e non so dove mettermi ora, dove ripormi, come portarmi, dove debbo stare? Non troverò mai, penso, mai dove mettermi e mettere le mie cose, la borsa perfetta che tenga tutto, che nulla si disperda o ancor peggio, dio mio, si perda. Affanno, asma e affanno, capogiri e sudore corro alla porta cercando disperata il poliziotto che piantona i miei domiciliari.

© Anna Toscano