Racconti Matti (Verso il Festival) #4 – Scrivere nei tempi morti di Silvia Tebaldi

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da Poetarum Silva

Nota: Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori dei racconti attorno al tema della follia, su quello che succede a volte nella testa della gente; sono tappe di avvicinamento al Festival dei Matti – Nel nome degli altri che si terrà a Venezia dal 13 al 15 maggio. Il quarto racconto è di Silvia Tebaldi e si intitola Scrivere nei tempi morti

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Scrivere nei tempi morti

Qui in questa casa persa tra i campi e in quello che ci diciamo c’è un segreto, sì, però più del segreto contano le strade per arrivarci; che sono poi linee invisibili tra i campi, pensieri che non si vedono, momenti come di stupore – di affetto per il cuore che batte, come ha detto qualcuno che ora non so.

Qui la mia gente è vissuta per chissà quanto tempo, prima di andarsene per via della piena, verso il mantovano, e ci chiamavano i Rugìr. E io son tornata qui l’anno del terremoto, quello che nessuno se lo aspettava; e dei posti e lavori ne ho girati, e gente conosciuta; ma ora che è maggio, che il grano ha già la spiga, mi sembra di esser sempre stata qui.

E guardo i campi e gli argini, l’aperto che puoi vedere anche tu, ora e sempre – basta che chiudi gli occhi – e sto dietro a custodire le cose che son vecchie, che le ha fatte una persona, non una macchina: ceste, pezze di tela e sedie, roncole col manico tarlato, attrezzi da campagna e fogli scritti. Cioè le cose che a uno di oggi gli fan pensare alla malattia del tempo, a quella che più nessuno si azzarda a nominare, ma io invece sì e la chiamo per nome, che poi è tutto e niente come ogni nome e lei è la morte come io sono l’Anita ad Rugìr, cioè i Ruggeri nel parlare nostro.

E anche la vita chiamo. E le dico Bada, che son cresciuta al tempo del vapore, io: e dunque non ingannarmi con false immagini, che da qui vedo la bassa fino all’orizzonte e le valli dove l’acqua e la terra si confondono, come al principio del mondo, e strade e fossi e capannoni e rovine. Che la sbronza di soldi e poi la crisi li han coperti di una polvere grigia che uno di oggi forse non ci bada, ecco.

E’ che quelli di oggi van di corsa, di fretta; eppure li vedi sempre a scrivere su quei cosi elettronici appena c’è un momento – a scrivere poi chissà che cosa, a scrivere il tempo che passa. E io uguale, fino a ieri, ecco.

Metti che sei una ragazza e che cresci in un ambiente, ecco, abusivo – un ambiente abusivo, perdio, e diventi una preda. La cosa è che le ragazze si vergognino, che sentano vergogna, che fra parenti e mariti e suoceri e padroni meglio per tutti se sta giù, la ragazza, giù bassa. E allora  qualcuno si incarica per tempo di segnarla, di marchiarla. Basta che non lasci tracce sul corpo. Che quelli che rimpiangono il patriarcato ce li vorrei proprio vedere, ecco, e che il potere funziona sempre così, sulla vergogna, ecco io ne sono certa, ma ora dico solo di quel taglio invisibile.

Che il marchio me l’han fatto anche a me.

Eppure il mondo era così spazioso, e io selvatica e ho preso il largo e via, che le strade erano ancora senza asfalto, ecco. E fatica sì, lavoro duro e mosche, sì, ma almeno impari un’altra lingua, un altro modo; e il cielo stellato su di te, e albe e notti da sgranare adagio, se non dormi, con diciotto benedizioni e nessun dio.

Metti che sei così e ce la fai, certo che ce la fai, combatti – solo mi è rimasta la pelle troppo sottile, che quando mi han toccata è diventata un terzo orecchio, un organo imperfetto dell’udito. E dove gli altri sentono parole, vedo suoni.

E queste cose spazzate via dal tempo, zappe e tovaglie e vasi, io non voglio né venderle né farci un tempio, un museo del passato. Stanno con me e son come il brusio dei pensieri, polvere, il polverìo di parole di chi scrive su un coso a batteria quando è in treno, in coda, nei tempi morti; le parole di quelli che resistono – noi fabbricanti di spiegoni, intossicati di fìsime, diagnosticati di passioni tristi.

Cose che son come i pensieri che si pensano, che ingombrano la mente, e quegli altri più giù che non sappiamo di pensare, che sfiatano nei sogni e nella febbre. Stan qui con me, ma la mia stanza è quasi vuota: giusto il letto e la sedia e la finestra. E le pareti di quel blu che un tempo si dava nelle stalle, nelle cucine, per tenere alla larga le mosche. Che ormai è diventato come il cielo ai primi di marzo. Che lo pitturò mio babbo, Gino ad Rugìr, l’anno della liberazione.

Poi il fienile che crolla verso l’argine, il pozzo, il gelso moro che sotto si sedeva Toni, che col carbone mi ha insegnato a scrivere. E’ morto nel diciotto che era un soldato, un ragazzo, eppure è venuto a trovarmi proprio ieri e ha detto pugni chiusi, Nita, e resistere; e che dov’è adesso, fotografa ogni giorno il cielo.

E insomma questa è la storia, ingombra di parole che si muovono da sole, come gatti di polvere. E poi c’è uno stanzino senza finestra, un ripostiglio che ti chiudi dentro ed è notte. Ma nel muro c’è un buco piccolissimo, nel muro grosso, e se gli volti le spalle vedi riflessi sulla parete il pozzo a bocca in giù, i campi rovesciati, il gelso come vivesse dalla cima. Che chissà chi l’ha fatta questa camera oscura; e quando, e perché mai – forse per gioco, forse per ricordarci che vediamo come in uno specchio, e spesso alla rovescia.

E allora pensa a una stanza vuota, a un vuoto celeste, con un silenzio che non è né blues né country – neanche folk, se per questo: puro silenzio, blu sbiadito sui muri. E a scrivere sui bordi del tempo, con il carbone o con quei cosi a pila – pugni stretti e resisti, come la Nita ad Rugìr coi ferrivecchi, con la camera oscura; che neanche fossero i beni più grandi, donati dagli dèi –theiadidomenès, theiamentosdosèi, com’è che diceva…

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© Silvia Tebaldi