Racconti matti 9#Nellie Bly

Da Poetarum Silva e Archivio Roncacci,  Nellie Bly, La donna che cambiò la storia del giornalismo mondiale

di Paola Ronco

È il gennaio del 1885, e sul Pittsburgh Dispatch compare un infiammato editoriale firmato da Erasmus Wilson: A cosa servono le ragazze (What girls are good for). Nell’articolo, una delle penne di punta del quotidiano lamenta il moderno flagello di queste donne che pretendono di studiare, andare a lavorare e crearsi una carriera, quando invece il loro ruolo naturale sarebbe quello di badare alla casa e ai figli. L’argomento non è nuovo, e continuerà a non esserlo negli anni a venire, ma è certo di quelli in grado di suscitare in uguale misura proteste, risate e adesioni. Tra le molteplici reazioni, il direttore George Madden legge con curiosità e ammirazione una lettera scritta da una certa ‘Orfanella Solitaria’; malgrado la firma, è talmente ammirato dalla prosa indignata e fluente da convincersi che si tratti, ehm, di un uomo, e subito scrive per offrirgli un posto al giornale. Gli si presenta davanti una giovane di ventun anni, molto bella e molto agguerrita, pronta ad accettare il lavoro con entusiasmo; il suo nome è Elizabeth Jane Cochran, e sono abbastanza certa che il loro dialogo sia andato più o meno così.

“Orfanella Solitaria?”
“Già. Mio padre è morto presto, e io devo aiutare mia madre e i miei fratelli.”
“Ma lei è una ragazza.”
“In effetti sì. Altrimenti avrei scritto Orfanello.”
“Allora non posso darle il lavoro.”
“E perché mai? Ho scritto io quella lettera che le è piaciuta.”
“Ma le ragazze perbene non fanno le giornaliste, suvvia.”
“Quindi lei è d’accordo con quel cialtrone di Wilson?”
“Non ho detto questo.”
“Mi metta alla prova e vedrà.”
“Dovrà trovarsi uno pseudonimo. Questo non è un mestiere per signore.”
“D’accordo. Mi farò chiamare Nellie Bly, come nella canzone.”
“E va bene, ci serve giusto qualcuno che vada alla gara di giardinaggio questo sabato.”
“Cosa? No.”
“Preferisce la moda? O le serate mondane?”
“Che noia. Io voglio scrivere della vita vera.”
“Ma non si è mai visto, suvvia.”
“Insomma, lei è d’accordo con quel cialtrone di Wilson.”
“E va bene, accidenti. Comincia domani.”

Nellie Bly scrive bene, fa nomi e cognomi, non ha paura di niente; parla di operaie sfruttate, di lavoro minorile, di salari. Inevitabile che per lei, insieme alla notorietà, arrivino anche i guai. Tra i finanziatori del giornale si contano molti industriali di Pittsburgh, che leggono con crescente fastidio le sue inchieste circostanziate e minacciano il direttore di chiudere i rubinetti se quella donna continuerà a intromettersi. Preoccupato, George Madden corre ai ripari e sposta Nellie Bly al giardinaggio; per tutta risposta, lei consegna il suo articolo, su qualche dama vincitrice del premio per il miglior roseto fiorito, insieme a una lettera di dimissioni.

La ritroviamo nientemeno che in Messico, impegnata in un viaggio che la trasforma in corrispondente estera. I suoi articoli vengono sempre pubblicati sul Pittsburgh Dipatch, e il direttore tira un respiro di sollievo nel notare che la sua reporter ha ripiegato sulla dimensione innocua dei reportage di viaggio. Dura poco, però. Dopo circa sei mesi dalla sua partenza, esce un articolo che racconta come il presidente messicano Porfirio Diaz abbia fatto incarcerare un giornalista dissidente. Da lì all’espulsione dietro minaccia di arresto il passo è brevissimo.

“E così si è messa di nuovo nei guai, eh?”
“Ho scritto la verità, che altro potevo fare?”
“Nellie, io la riprendo a lavorare con me, ma lei sa dove, vero?”
“Di nuovo al giardinaggio? No.”
“Nellie.”
“Me ne vado.”
“Ma dove?”
“A New York. Sentirà presto parlare di me.”
“Non ne dubito.”

Ci va davvero, e bussa alla porta del The New York World, il giornale di un uomo che per i talenti ha un fiuto particolare, e che infatti la prende subito: Joseph Pulitzer.

Il primo incarico è quello della vita, il più difficile, il più incredibile. Nellie Bly deve scrivere un reportage sulle condizioni in cui vivono i malati mentali internati e, per poter avere informazioni di prima mano, trova come unica soluzione quella di fingersi pazza, per poter essere rinchiusa nel manicomio di Blackwell’s Island. Sono tempi magnifici e gloriosi per il giornalismo, e un’impresa del genere sembra l’unica possibile, per scrivere i fatti così come sono.  È la prima volta che qualcuno ci prova, e che si tratti di una donna è del tutto senza precedenti. In questo caso abbiamo un resoconto reale del dialogo tra Nellie Bly e il suo responsabile:

“Non vogliamo rivelazioni sensazionali, niente del genere. Devi solo scrivere le cose come sono, buone o cattive. La verità, sempre.”
“Ho solo una domanda, ma una volta che entro, come farete a tirarmi fuori?”
“Non ne ho idea. Ci inventeremo qualcosa.”

È così che nasce Dieci giorni in un manicomio: un resoconto crudo, emozionante, onesto del trattamento riservato ai malati mentali. Nessuno ci è mai riuscito prima, a ben pochi è mai interessata la questione, finché non leggono quello che accade a Nellie Bly.

La sua preoccupazione principale, quella di non essere creduta pazza, si dissolve immediatamente nell’impatto con la realtà. Come lei stessa racconta, Nellie Bly si esercita un po’ a fare lo sguardo smarrito allo specchio, poi va in una casa rifugio per donne sole e spaventa tutte con qualche discorso sconclusionato, fino a essere portata via. Riesce a ingannare un giudice e vari medici, che la bollano come pazza incurabile dopo visite di pochi minuti, e viene portata al manicomio in un paio di giorni. L’impatto con Blackwell’s Island è spaventoso. Dopo una cena immangiabile, le internate vengono messe in fila e sottoposte al rituale del bagno; davanti a tutte le altre, una alla volta vengono immerse in una vasca di acqua gelida, che non viene mai cambiata, strofinate con violenza, bagnate con secchiate fredde e poi portate alle loro camere. Nellie Bly implora che le lascino i lunghi capelli asciutti, ma nessuno la ascolta; chiede allora almeno una camicia da notte.

“Non abbiamo di queste cose, qui”, le risponde l’infermiera.
“Ma io non posso dormire senza.”
“Non mi interessa. Ora sei in una struttura pubblica, e non puoi pretendere niente. Dovresti ringraziare per quello che ricevi, altro che chiedere.”
“Ma la città paga per mantenere queste strutture”, insiste Nellie. “E paga le persone per essere gentili con gli sfortunati che finiscono qui dentro.”
“Beh, è inutile che ti aspetti gentilezza, qui, perché non ne riceverai.”

Le pazienti sono molte e molto diverse tra loro; c’è chi soffre di un reale disagio mentale, e chi invece è stata rinchiusa dai parenti per qualche comportamento irregolare, o magari per liberarsi di una bocca in più da sfamare. Le giornate al manicomio passano lente, tra sadismi gratuiti, cibo pessimo e noia.

I medici che mi condannano per quello che ho fatto dovrebbero provare a prendere una donna in perfetta salute, a rinchiuderla e lasciarla seduta dalle sei del mattino alle otto di sera su panche di legno, senza permetterle di parlare o muoversi durante queste ore, senza darle qualcosa da leggere e senza dirle nulla del mondo di fuori, a darle pessimo cibo e un trattamento rude. Dovrebbero fare tutto questo e vedere quanto ci vuole per vederla diventare pazza. Io dico che due mesi così la renderebbero un relitto umano.

 Nellie Bly resiste dieci giorni, poi riesce a farsi salvare dal giornale, rivelando tutto. Il suo reportage fa grande scalpore e porta a un’inchiesta approfondita. Le condizioni del manicomio, grazie a lei, migliorano sensibilmente, e vengono aumentate le sovvenzioni. Noi oggi parliamo di giornalismo investigativo, spesso a sproposito, e moltissimi di noi ignorano che una delle prime persone al mondo ad affinare quest’arte è stata proprio una giovane donna ostinata e coraggiosa, che ha sfidato il mondo e i suoi pregiudizi per andare avanti e poter scrivere in libertà. Nellie Bly non fu la prima donna reporter della storia, ma di certo fu la prima a creare il genere del giornalismo ‘sotto copertura’. Si fa arrestare per svelare la situazione delle carceri, si fa assumere in posti orribili per raccontare cosa vuol dire lavorare molte ore per pochi centesimi. Nel 1889, poi, passa a qualcosa di più leggero ma non meno impegnativo; riesce a convincere Pulitzer a farle provare l’impresa raccontata da Jules Verne nel suo Giro del mondo in 80 giorni.

“Un viaggio così lungo? E come facciamo?”
“Non ci vorranno molti soldi, viaggerò in economia. E farò moltiplicare le vendite del giornale.”
“Non è questo il punto. È che dovremo prevedere chissà quanti accompagnatori.”
“E perché mai?”
“Perché è così che si fa, no? Voi donne viaggiate con centinaia di bauli.”
“Io no. Io porterò solo due valigie. E andrò da sola.”

Nellie Bly di giorni ce ne mette settantadue, un record assoluto per l’epoca, e diventa la più celebre giornalista del suo tempo. Tocca tutti i continenti per un totale di quarantamila chilometri, e a Parigi incontra Jules Verne in persona, che le manifesta la sua stima. Il giornale, oltre a pubblicare i suoi resoconti di viaggio, lancia un gioco per indovinare la data esatta del suo ritorno, e oltre un milione di persone partecipa. Al suo ritorno, il New York World la accoglie con l’equivalente di una pacca sulla spalla; niente promozione, nessun bonus, nessun riconoscimento. Nellie Bly si licenzia, poi si fa convincere a tornare sui suoi passi, poi sposa un miliardario, con grande sorpresa di tutti. Per qualche anno smette di scrivere, ma non resiste a lungo, e sempre ricomincia da capo, una nuova vita dietro l’altra. Allo scoppiare della prima guerra mondiale, è ancora in prima fila, diventando ovviamente la prima corrispondente di guerra donna.

Sono certa che sarebbe stata molto felice di sapere che un giorno avrebbero girato un film ispirato alla sua vita.
Dedicato alla sua esperienza in manicomio, Ten days in a Madhouse è uscito nel 2015, ma qui in Italia non sappiamo ancora se e quando potremo vederlo.

C’è anche un sito internet dedicato a lei, www.nellieblyonline.com, dove è possibile leggere i suoi articoli e godere della sua prosa brillante, mai banale.

Per conoscerla è davvero indispensabile leggerla.
Per raccontarla in breve basta forse una frase, che Nellie Bly ha detto poche settimane prima di morire, a 58 anni: Non ho mai scritto una parola che non provenisse dal mio cuore. E mai lo farò.

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© Paola Ronco

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