Racconti Matti 11# Vincenzo e Milano

da Poetarum Silva

Vincenzo e Milano di @Barbara Garlaschelli

Vincenzo cammina rasente i muri, sia in casa che fuori. I muri lo proteggono. Un poco, almeno. Se potesse non uscirebbe mai, ma non può. C’è sempre qualcuno – sua madre, suo padre, suo fratello, sua cognata – che gli dicono che non può restare in casa, deve uscire per andare a lavorare.
Lavora come bidello in una scuola media. Una tortura quotidiana. Tutti quei ragazzi, quelle voci, quello sbattere le porte, urlare, salire e scendere le scale. E mai che camminino ‘sti ragazzi. No, sempre di corsa.
Vincenzo, invece, avrebbe bisogno di silenzio per mettere ordine nei pensieri che si aggrovigliano nel cervello. Soprattutto vorrebbe riuscire a costruire un muro dentro la testa in modo che quelli non possano leggergli dentro.
Ha provato a spiegare ai dottori che non è lui quello pazzo ma quelli che vogliono controllargli i pensieri, ma i medici, con quel loro sussiego stucchevole e imbarazzato, gli hanno fatto fare tanti esami, e controlli, e radiografie e poi gli avevano somministrato pillole di varie colori da prendere a certi orari del giorno, preciso mi raccomando, e lo avevano mandato a casa.
Così, un giorno, aveva deciso che forse la forza pubblica poteva proteggerlo. Si era recato in commissariato, senza dire niente in casa, vestito del suo vestito migliore e aveva chiesto di parlare con la persona più importante che ci fosse lì. Aveva finto di non accorgersi dell’occhiata di sospetto compatimento che gli aveva lanciato la guardia con cui aveva parlato e che gli aveva risposto: «Si sieda e aspetti».
Vincenzo, come sempre, aveva ubbidito. Lo faceva sempre, con  tutti, sin da quando era bambino. Ubbidire però non lo aveva protetto da loro. Loro erano riusciti a entrargli nella testa e lo tormentavano.
Dopo una mezz’ora era arrivato un’altra guardia. Un signore più vecchio del primo, con una divisa più bella.
«Mi dica» aveva esordito guardando Vincenzo dritto negli occhi. Non aveva nessuna espressione. La sua faccia era come una lavagna cancellata. Vincenzo si era sentito rassicurato.
«Vorrei fare una denuncia.»
La guardia aveva fatto un cenno al suo collega giovane che nel frattempo era riapparso sbucando da  una porta e si era accomodato dietro una scrivania sulla quale stava un pc, aspettando.
«Mi dica» aveva ripetuto l’uomo senza espressione. E Vincenzo aveva cominciato a parlare e mentre lui parlava, la guardia giovane batteva sulla tastiera del pc senza spostare gli occhi dallo schermo.

ALLA CORTESE ATTENZIONE DEL COMANDANTE DEI CARABINIERI*
Il sottoscritto D.V. Carlo, nato a Milano il *** 1965, abitante a Milano in via ***
DENUNCIA
Lo strano evento accaduto il 21/6/90 nella casa di cura *** di via ***.

Io accusavo uno strano malessere funzionale alla testa (“gocciolamento” interno della parte superiore della scatola cranica), e non solo, dovuto a inopportune sostanze medicinali presenti nei cibi e nelle bevande e ad un altro trucco.
Un giorno andai dal medico di famiglia per domandare un esame del sangue come test.
Egli mi prescrisse due esami particolari per tali sintomi, un elettroencefalogramma semplice e un esame radiologico approfondito al cranio.
Mi presentai per l’e.e.g. e mi siringò la testa con la scusa di due elettrodi saturati nella rete elastica; facendomi tenere gli occhi chiusi il più possibile, durante la seduta, egli mi richiedeva l’apertura degli stessi a comando.
Sulla scrivania di fronte alla mia sedia, sulla destra, trovavo delle fotografie del tipo auto incidentata, organo genitale femminile ben ingrandito, ecc.
Questo esame è stato eseguito nell’ultima stanza a sinistra in fondo al corridoio.
La programmazione prevedeva anche i RX per sterilizzare il sottoscritto, infatti effettuarono il giorno 21 le proiezioni richieste.
La radiologa (signora con il camice bianco) estrasse dal letto diagnostico, in mia presenza, il blocco con la lastra di piombo nera e le terre nella parte corrispondente ai genitali esterni (parte centrale).
Nel camerino deposi gli oggetti di metallo e la camicia azzurra.
La radiologa spogliò il letto di lenzuola e altri oggetti.
Ella mi diede degli ordini strani come ad esempio l’esecuzione del “quattro” con le gambe sul letto e desiderava una particolare  posizione delle braccia. Ad un certo istante apparì dentro la sala il signor Parroco D. con l’abito religioso estivo e disse: “È stata violentata”.
Dietro il paravento in metallo grigio scuro con le feritoie in vetro vidi la signorina S. L. travestita da suora operare sulla strumentazione radiologica per sterilizzarmi, poco dopo l’estrazione del quadro.
Questa insolita intrusione aiutata da abiti ecclesiastici mi lasciò molto perplesso.
La “suora” in questione aveva una veste e un velo grigio e indossava la ben nota cuffia bianca dello stesso tipo delle Suore della Beata Vergine Maria di Via ***, dove trascorsi tre anni di scuola materna e cinque anni di doposcuola.
La domenica successiva, quando uscii con una ragazza, sentii forti dolori ai testicoli senza aver avuto alcun infortunio.
Nei giorni successivi ritirai gli esiti e andai dal mio medico ambulatoriale, purtroppo era assente nello studio e trovai come sostituto il dottor T. che mi voleva inviare da un medico internista.
Io non andai né di persona e neanche su prenotazione, perché il tutto mi sembrava molto strano.
Posseggo il foglio con la calligrafia e l’intestazione del suddetto dottore, come dimostrazione.
Desidero perseguire penalmente queste persone davanti a un Tribunale della Repubblica, perché sono in perfetto stato di benessere psico-fisico.

Milano, 26/8/92

«Finito?» aveva chiesto la guardia anziana.
«Sì» aveva risposto Vincenzo ed era rimasto fermo ad aspettare.
La guardia giovane aveva stampato il foglio e glielo aveva fatto firmare. Vincenzo aveva esitato un secondo, lanciando un’occhiata alla guardia più anziana seduta impassibile davanti a lui. Poi aveva firmato, si era alzato, aveva cercato di allungare la mano verso l’uomo ma lui si era già alzato e dicendo un rapido “Buongiorno” se n’era andato seguito dal collega più giovane.
Ora Vincenzo cammina. L’aria del mattino è fresca e gli solleva il ciuffo sugli occhi. Si era aspettato qualcosa dopo quella denuncia ma non era successo niente a parte che suo padre, una sera a tavola mentre tutti mangiavano in silenzio, gli aveva detto: «Da stasera devi prendere anche queste pillole.» Vincenzo non aveva fatto domande, aveva ubbidito come sempre e aveva preso le nuove pillole. Queste erano rosse, mentre le altre erano una bianca e un’altra azzurrina. Le aveva buttate giù con un sorso d’acqua, poi aveva chiesto il permesso di andare nella sua stanza.
Mentre cammina, Vincenzo sente nella testa che quel gocciolio non se n’è andato. E nemmeno l’immagine della suora. Tutto gli sembra come sempre. Pillole  rosse bianche o azzurrine non cambia nulla. Nemmeno fare la denuncia ha cambiato nulla. Nemmeno ubbidire sempre ha cambiato nulla.
Per questo ha deciso che non ubbidirà mai più. Si avvicina a un bidone della spazzatura e getta le scatole delle medicine, poi si guarda attorno. Se prende  a destra andrà c’è la  scuola, se prende a sinistra c’è la stazione ferroviaria, se fa dietrofront c’è la sua casa.
Vincenzo lascia che l’aria gli sposti di nuovo il ciuffo di capelli poi tira dritto.

* La denuncia è reale. Trovata tra i molti documenti messi a disposizione dal personale del CPPS di Via Ugo Betti a Milano per scrivere il libro FramMenti (edito da Moby Dick, piccola grande casa editrice di Faenza di Guido Leotta. Morto lui, la casa editrice è stata chiusa. Il libro rivedrà luce alla fine del 2017 per le Edizioni del Gattaccio, nella collana Sdiario).

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© Barbara Garlaschelli